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giovedì 9 febbraio 2012

L'aeroporto di Malpensa e il resto del viaggio

Dopo aver impacchettato il bagaglio nella pellicola verde , cominciano le 4 ore d’attesa per il decollo. Dopo una lunga camminata giungo nei pressi del primo sportello, indicato come quello del volo AirChina CA 0959, mi siedo contro un muretto e dopo dieci minuti buoni davanti all’iPad vengo colto da un leggerissimo sospetto: comincio a guardarmi attorno e a sospettare di essere già a Pechino. L’UNICO e ripeto L’UNICO! non orientale nel raggio di kilometri; davanti a me si stagliano decine e decine di testoline dagli occhi a mandorla con indosso maglie dell’Inter, borse Luis Vuitton o enormi pelliccioni.
I bambini corrono come dannati sbraitando in una lingua che ho sentito solo a cena, mentre i genitori solo diligentemente suddivisi su due code speculari in due gate diversi.



Ad un certo punto quelli del gruppo alla mia sinistra si muovono nella coda di destra in modo estremamente fluido, una massa di un centinaio di persone, con carrelli, valigie, anziani, si travasa nell’altra coda. Sembra una cosa stupida da far notare, ma quando si muovono in massa fanno impressione, sono tutti perfettamente coordinati.

Mentre mi approccio, ormai ultimo, alla coda, sento il poco orientale accento emiliano alle mie spalle. Sono padre e figlia, lei avrà più o meno la mia età, che sottolineano il loro stupore per la totale manca dell’emisfero occidentale al primo sportello dell’aeroporto di Malpensa.
Come in ogni altra situazione di difficoltà, il senso di aggregazione prevale e scambiando due chiacchiere con Prisca, scopro che non solo è diretta come me a Pechino, ma che condivideremo anche il volo per Sydney e l’ingresso come lavoratori/studenti.

La coda si muove, spintonano, si sorpassano, sgomitano e finalmente arriva il mio turno.
Primo attimo di pachino: la hostess non ha mai avuto sottomano (visto) un visto come il mio. Gelamento di sangue. Arriva il collega. Tutto risolto, è lei rincoglionita.

Dopodichè mi avvio con la mia nuova compagna di viaggio verso il check-in, prima del quale saluta il padre (simpatico). Dopo poco saliamo in aereo, si parte!

Sono le 20.00: è tutto pronto, l’aereo è sulla pista di decollo, comincio a strizzarmi le mani e copro il monitor davanti a me che manda la ripresa in diretta del suolo durante la partenza. Ci siamo, 3 - 2 - 1 - VIA! Anzi no! L’aereo non parte, si gira, fa una deviazione a sinistra e si mette in attesa. Guardo incuriosito il display e sotto l’Airbus A330 cominciano a passare delle macchine e delle autocisterne.

Il pilota si scusa ma la partenza è ritardata, bisogna sbrinare le ali.
Passa un’altra ora buona e finalmente ci siamo, ciao Italia.

Il volo procede bene, tra gag e poco sonno. Il piccolo display che ho davanti è mezzo scassato, non va il telecomando e le uniche cose non cinesi che offre sono il film di Mamma Mia! e il documentario sulle prove dell’ultimo spettacolo di Michael Jackson...in loop.

11 ore di Michael Jackson che fa finta di saper ancora ballare sono dure da digerire e se non sei tu a guardarlo, sarà sicuramente il vicino o quello della fila davanti, quando non entrambi.

Finalmente arriviamo all’aeroporto di Pechino, al segnale di slaccio delle cinture i cinesi si alzano all’unisono, veramente all’unisono, coordinati aprono contemporaneamente tutti gli sportelli e tirano fuori i bagagli a mano. Noi scoppiamo a ridere.


Qui ho una grande sorpresa: pensando all’aeroporto di Beijing, mi immaginavo un luogo simile a un mercato, confusione, odori forti, qualcuno che tiene con un braccio sopra le teste degli altri, due galline legate tra loro che svolazzano, vecchie valigie di cartone tenute insieme con lo spago, magari una bancarella che stufa ravioli al vapore dal forte odore di carne.
Invece è bello, è pulito e talmente avanzato da far impallidire qualunque scalo italiano. Sopra le nostre teste si alternano reticolati a lunghe travi a reggere il soffitto a cupola; uno degli sportelli attraverso i quali passiamo è destinato a misurarci la temperatura al solo passaggio; e nonostante le orecchie ancora tappate, penso di aver sentito distintamente un assoluto silenzio per tutto l’aeroporto. C’è pure uno Starbucks originale nel duty-free!



Dopo quattro o cinque controlli del passaporto, un paio di timbri, ricontrollo di tutti i bagagli, inizia l’attesa per il nuovo volo. Fare 11 ore d’aereo non sono niente se sai che te ne aspettano almeno altrettante!

Durante l’attesa per l’imbarco conosciamo Carlo, torinese, circa 25 anni e un evidente passato da redhead in salsa irish.
Questa volta è Carlo ad avere il posto assegnato vicino a Prisca e io mi ritrovo solo tra Cinesi e Australiani. In particolare un cinese, seduto di fianco a me che ha fatto pignolerie per farmi sapere che il posto interno era il suo e a me spettava quello corridoio (“Bene, grandissimo stronzo, tu dai qui non esci a costo di doverla fare dentro i sacchettino per il vomito!”). Neanche a dirlo, la tivù offre ancora Mamma Mia e Michael Jackson, possibile che nessuno faccia caso a queste cose? Vorrei prendere quello depuptato alla scelta dei film e incerottarlo a una sedia anternandogli Mamma Mia e quel cazzo di It’s this (o come cavolo si chiama) per 23 ore e poi, prima di farlo alzare, scusarmi e dirgli che le ali si devono sbrinare quindi ha da trascorrere un’altra ora di tortura.



Inforco in naso nell’iPad e lo stacco solo per dedicarmi alla lettura di Chatwin. Volo concluso!


L'arrivo all'aeroporto? Pioggia, palme udimita' e caldo. Come se fossi ai tropici.
Dopo aver sbrigato le pratiche per il numero di telefono (vodafone stupidamente) mi accingo a condividere un taxi con i miei due nuovi compagni di viaggio.
Nonostante l'enorme coda, l'attesa non supera i cinque minuti e ci ritroviamo a sfrecciare dentro una vecchia station wagon a sfrecciare per la periferia australiana.

L'aeroporto dista veramente poco dal centro citta', circa una decina di kilometri per una ventina di minuti di viaggio, traffico incluso.
La periferia di sydney e' esattamente come ce la si puo' immaginare: strade larghe, senza ragiungere gli eccessi californiani, una miriade di case basse e soprattutto tantissimo verde! Animali non se ne vedono, fatto salvo per qualche strano uccello dal becco particolarmente lungo.

Il taxi ci scarica in piena king's crosso, a poca distanza da un enorme cartello Coca Cola che, stando alla Lonely, e' un simbolo della citta' quanto l'Opera House.
Scesi dal taxi iniziamo a girare la cartina in ogni direzione alla ricerca ciasucno del proprio ostello e qui abbiamo il privo vero contatto con un cittadino australiano, un signore sulla quarantina che ci corre incontro speranzioso di poterci aiutare. Si e' messo a correre quando ci ha visti in difficolta', rendiamoci conto! A new york lo farebbero solo se sicuri di una lauta mancia e a Roma, le uniche persone che ti possono correre incontro sono degli scippatori!
Dopo aver individuato i nostri ostelli, le nostre strade si dividono e comincia la mia passeggiata in solitaria verso ovest. Attraverso tutto il quartiere di king's cross a bocca spalancata. Le case sono tutte ex residenze degli inglesi benestanti ormai decadute. Lo stile colonico si mescola ai piccoli giardini pieni di piante tropicali, ci sono piante ovunque. Palme, cespugli di piante a foglie lunghe, enormi alberi dai rami lunghissimi che coprono completamente la strada.
Dopo circa un'ora di camminata a naso all'insu', individuo la central station oltre la quale dovrebbe trovarsi il mio ostello. Eccomi giunto al wake up hostel.

1 commento:

  1. La maratona di Michael Jackson era per farti sentire ancora assieme a noialtri davanti alla wii, non l'hai capito?! :))
    Sono già fan di e-migrate 2.0, mi pare di vederti! Abbraccini innevati.

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